Perché il Giappone – di LUCIANA MARINANGELI
Perché il Giappone ha costruito tutte quelle centrali e tutti quei grattacieli , proprio quel paese dove i nati dopo Hiroshima ancora muoiono di tumore e proprio su quel suolo da sempre tormentato dai terremoti?
Perché tutta quella calma, quell’ordine umano nell’estremo disordine naturale, quella commessa che nella scossa bada a salvare non se stessa ma le bottiglie del negozio, perché quell’impiegato che invece di mettersi in salvo continua a lavorare sulle pratiche appollaiato sulla sedia che gli ballava sotto, perché i due vigili che salvano colla massima serietà il cagnetto intrappolato?
Perché quel grande aiutarsi l’uno con l’altro, quella gente che se ha l’acqua in casa mette fuori della porta un segnale perché gli altri possano venire a riempire le loro taniche? Perché quella persona tornata dal suo riparo alla sua casa lesionata ci trova cibo e acqua lasciati all’entrata, non si sa da chi, ma stanno lì? Perché quegli uomini anziani con berretti verdi che vanno di porta in porta per accertarsi che tutti stanno bene? Perché la gente parla a perfetti sconosciuti chiedendo se hanno bisogno di aiuto?
Perché non si vedono segni di paura? Rassegnazione, si, ma paura o panico, no.
Perché dal caos, dall’Apocalisse di rottami, riescono a costruire una strada in tre giorni?
Qualche risposta:
Il Giappone che ha costruito tante centrali nucleari dopo Hiroshima è il Giappone dei samurai, figli dell’epocale cambiamento di prospettiva avvenuto nel Seicento quando all’anima shinto originaria, coi suoi valori di modo di vivere semplice, di profonda intima unione con la natura, e alla profonda influenza successiva del buddismo per la capacità di sentire il dolore – e la gioia – dell’altro , si sovrappose un modello combattente, il bushi-do: tutto è possibile per il guerriero. Da cui il senso di profonda sicurezza della capacità di conoscenza, il raccogliere la sfida dell’Occidente superandolo nelle performance, nell’altissima tecnologia.
Le centrali nucleari, sono l’ombra del Giappone, dice Kenzaburo Oe, lo scrittore premio Nobel che ha raccontato la vita del figlio ritardato e quella dei superstiti di Hiroshima. L’ombra, il rovescio oscuro del lato splendente, l’efficienza tecnica. Con Jung potremmo parlare di identificazione con l’aggressore: la vittima che si identifica, mimetizzandosi, con l’aggressore, il paese aggredito dall’atomica che si rende a sua volta grande produttore di centrali nucleari come il molestatore di bambini che fu molestato da bambino.
Quella calma, quell’ordine, quell’occuparsi dell’altro da sé: se da un lato vi si riconosce il tradizionale canone di comportamento orientale, forte specie in Cina, dell’impassibilità, del non far trasparire i sentimenti, dell’imperturbabilità, c’è in realtà molto di più di un riduttivo “non perdere la faccia”, in Giappone c’è un rapporto con la natura esattamente antitetico all’Occidente: in Occidente Dio è separato dalla natura, dall’uomo, questo colpevole. In Giappone gli dei generano direttamente, sessualmente, gli uomini e gli eventi naturali, che non sono né buoni né cattivi. Anche gli déi non sono né buoni è cattivi e nel terremoto non c’è una punizione o un “disegno” degli dèi. La parola natura, shi-zen, significa se stesso così com’è: ogni cosa , anche un filo d’erba, un sasso, è Kamì, divinità, giustificato in sé, la realtà così com’è, sempre divina.
La calma, il coraggio dei Giapponesi, il non arrendersi ma subito ricominciare con tesa concentrazione, vengono da una loro capacità di saper sempre vedere una luce, una possibilità di rigenerazione.
“L’acqua e il pane lasciati da sconosciuti alla mia porta”, dice una ragazza della Sendai colpita dal terremoto, “il silenzio nella notte libera dalle automobili, le stelle che adesso vedo numerosissime nel cielo e che prima erano solo due o tre… sento una possibilità enorme di rinascita, di cambiamento. Per tutti”.
Cambiamento che è inevitabile, che fa parte delle cose, che tutte passano e rinascono: l’insegnamento fondamentale del buddismo, l’unica cosa permanente è l’impermanenza, l’eterno nascere e perire e rinascere che tutto accomuna. Perciò la virtù shintoista, e buddista della gentilezza verso le creature, dell’empatia, della cum-patio, la virtù di saper sentire quello che sente l’altro, sentire quello che l’altro non riesce a dire, il lamento del vecchio malato silenzioso, del cavallo cui il freno ferisce la bocca, della pianta abbattuta in piena fioritura. Perciò sono così importanti le canzoni popolari di ogni paese, voce di chi non parla, perché nella storia non hanno mai avuto diritto di parola la madre sola col figlio, l’amante abbandonato, il soldato mandato a morire, e il bambino chiuso nel suo mondo magico.
Io credo che possiamo imparare dal Giappone: imparare a vedere nella crisi un’opportunità di rigenerazione, imparare che dobbiamo accettare che siamo impermanenti, - altro che prolungamento della vita fino a 120 anni-, imparare ad aiutarci insieme, con un lucido distacco, senza piegarci alla tragedia come qualcosa di giusto, e ricordarci che c’è sempre il cambiamento, anche in meglio. Soprattutto impariamo da loro il sentirci tutti assieme su questa terra, uomini, animali, piante, aria,terra , acqua:quella grande rete che loro chiamano “wa”dove tutte le caselle dell’intreccio sono interconnesse e se una casella anche distante dalla mia, che sia uomo, pianta ,animale, casa, idea, sta male, tutta la rete soffre e tutta la rete deve prestarle aiuto perché tutta la rete stia bene.
“Puoi dire che sono un sognatore”, dice la grande anima di John Lennon, “ma non sono il solo, e un giorno…”.
Completa la canzone, gentile lettore.